Dei forconi si sta già parlando molto, anche in Kollettivo, e non mi addentro nella questione per due motivi:
- mi informo solo su internet, inchiodato come sono a una scrivania distante duecento km dai luoghi del reportage pubblicato da Husky e Ruphus;
- come già detto, altri ne stanno parlando.
Nonostante questa premessa, il mio articolo parte proprio dalla questione "forconi".
Un amico la settimana scorsa mi ha chiesto, al termine di una lunga discussione online, perché non mi andasse bene questa "rivoluzione". In sostanza, il messaggio era: "Quindi se non fai le cose tu, Ugo, allora non vanno bene."
Qual è il motivo per cui dedico un post a rispondere a questa domanda, che potrebbe benissimo venir definita inutile?
Il motivo è che questo è il sentire comune; chi vuole un cambiare profondamente il sistema viene additato nel migliore dei casi come grillo parlante e pignolo, nel peggiore come rompicazzo e viene linciato.
Noi parliamo molto di rivoluzione, perlomeno tra di noi; non è un mistero. Ciò che forse si fatica a cogliere, è che noi non ci accontentiamo di una rivoluzione qualsiasi, come si parlasse di scegliere una mela dal fruttivendolo. Noi vogliamo una Rivoluzione, con la erre maiuscola, ossia un rivolgimento-stravolgimento del sistema, che per noi è vecchio e malato (ma malato lo era fin dalla culla).
E come la si riconosce una "Rivoluzione" da una rivoluzione qualsiasi? (Che poi definire questa una rivoluzione mi pare un po' improprio)
Innanzitutto, una rivoluzione seria è accompagnata da due circostanze storiche difficilmente sottovalutabili:
- un profondo cambiamento di sensibilità in ampie fasce della popolazione, una spaccatura rispetto allo spirito dei tempi dominante;
- uno spostamento di lealtà, dalle istituzioni vigenti alle istituzioni future.
Tutto questo non sta accadendo.
Per continuare bisogna inoltre tenere conto della questione "dell'ideale". Una rivoluzione che si rispetti è guidata non tanto da un malessere diffuso e confuso contro il presente, quanto da un'idea di futuro; per quanto possa essere altrettanto ambigua, velleitaria e fumosa come il malessere di cui sopra.
Tutto questo non c'è.
Detto questo, io, Ugo Tovil, mi sento perfettamente in diritto di poter dire che questa non è la mia rivoluzione; non tanto perché non l'ho organizzata io, quanto perché non risponde minimamente ai requisiti fondamentali perché possa davvero cambiare le cose, a mio parere.
Manca la spinta verso il futuro.
Manca un'idea precisa di cosa dovrebbe avvenire in seguito.
Manca la voglia di costruire.
E se manca tutto questo, be', lasciatemelo dire: non è la mia rivoluzione.
Nessun commento:
Posta un commento