CAPITOLO TERZO: Apnea
3 Marzo
I miei carcerieri sono degli orologi. Precisi, inflessibili e stupidi come qualsiasi meccanismo che non conosca il proprio principio. Mi picchiano ancora, sempre la solita farsa del violino. Il comandante non si vede da due giorni. Poco male, era il peggiore. Per fortuna non hanno ancora trovato il mio piccolo diario. Lungi dal poterlo leggere - l'italiano è ben aldifuori della loro portata - lo brucerebbero immediatamente.
"Come ufficiale di collegamento durai molto molto poco. I titini si resero conto immediatamente delle mie enormi difficoltà con lo sloveno e nel loro italiano stentato da italianizzazione forzata mi spiegarono che se ne facevano poco o niente di me e che mi conveniva andare da un'altra parte.
Mi spedirono al Lago di Bled dove per un paio di settimane affiancai il loro servizio di spionaggio come madrelingua di italiano incaricato di tenere d'occhio i gerarchi in vacanza. Non avevo neppure bisogno di usare un falso nome. Ero italiano, ero un entusiasta del regime, ero un patriota ed ero due orecchie ben tese.
Ovviamente, io ero un principiante e per quanto mi fosse più facile trincerarmi dietro menzogne e scuse, non ci volle molto prima che il controspionaggio mi scoprisse.
Nel giro di due settimane mi ero "bruciato" ed ero stato assegnato ad una piccola base logistica sui fianchi del monte Klek.
La base era una casa annerita dal fumo dal camino e dal tempo dentro e sorprendentemente bianca all'esterno. Era di proprietà di un compagno, costruita dal suo bisnonno come malga e rifugio per i nobili austroungarici che nella loro indolenza si dedicavano a sporadiche scampagnate sulle Alpi Giulie. Pur essendo una costruzione piuttosto bassa era a due piani, con balconi fioriti curati dalla moglie del proprietario. A turno ogni giorno eravamo tenuti a spazzare i pavimenti di legno e a cucinare la cena nella stufa del piano terra, il cui fuoco serviva a scaldare anche i piani superiori. Di ceramica bianca, tipicamente austriaca, era il frutto della gratitudine di un notabile locale, sorpresa da una tempesta distante da casa e ospitato dai nonni del nostro oste, e unico segno di ricchezza della casa e in evidente contrasto con la rustica essenzialità del rimanente arredamento. Noi dormivamo nel pagliaio dietro la casa, sempre vestiti e pronti a fuggire qualora si fossero avvicinati individui sospetti.
Lì lavoravo come un mulo aiutando i compagni in tutti i lavori di fatica. In cambio, un compagno della comunità slovena di Trieste mi insegnava pian piano qualche parola. Più tardi sono venuto a sapere che conosceva anche i miei genitori e che erano rimasti in contatto nonostante tutti gli anni trascorsi.
Fu grazie a lui e alla sua rete di contatti di dimensioni incredibili che venni a sapere della morte di mia madre. Ne aprofittai per tornare in Italia. Mi feci crescere la barba, presi un biglietto del treno e arrivai in paese, dove feci appena a tempo a visitare la sua tomba prima di ripartire. Destinazione: Trieste.
Ripensando a quel periodo non mi capacito di come abbia viaggiato di più in un paio di mesi che in tutti gli anni della mia adolescenza.
Dopo la partenza di mio padre, venne a stare con noi una "zia", in realtà una triestina italiana e antifascista, vecchia conoscenza dei miei. Il rischio aumentava, ma quanto meno riuscivo ad andare avanti a studiare. Vivevamo come in apnea tra una lettera e l'altra di mio padre, che ci raccontava del caldo e delle mosche, del leone che una volta aveva visto vagare nel deserto e delle mandrie di gazzelle e dei popoli cui gli chiedevano di sparare contro, le loro abitudini e i loro costumi.
Non poter più usare la propria lingua, neppure nelle ore più profonde della notte, non ebbe un bell'effetto su mia madre. Pallida, smunta, era diventata l'ombra di sé stessa. Per fortuna tra il lavoro nella vigna, cui collaboravo spesso anch'io, e la presenza della zia, riusciva ancora a distrarsi un poco, ma le parole che pronunciava tra una polenta e l'altra erano ormai davvero poche.
Tutto questo finì e lei divenne muta, il giorno in cui io compii 18 anni. La lettera di mio padre era un mese in ritardo e ciò ci aveva già procurato un enorme senso di angoscia ed oppressione. Venne a bussare il vicino che di norma raccoglieva la posta per noi, reggendo una busta leggermente ingiallita.
Dentro, in chiare lettere era scritto: Antonio Stefani, classe 1898, deceduto in <località ignota>, il giorno 5 agosto 1940.
Mia madre urlò fino a sgolarsi e a volte io credo che ci riuscì, poiché da quel giorno non la sentii mai più parlare. Neppure quando uscii di casa l'ultima volta per prendere la via della montagna mi parlò. Mi abbracciò e basta."
I miei carcerieri sono degli orologi. Precisi, inflessibili e stupidi come qualsiasi meccanismo che non conosca il proprio principio. Mi picchiano ancora, sempre la solita farsa del violino. Il comandante non si vede da due giorni. Poco male, era il peggiore. Per fortuna non hanno ancora trovato il mio piccolo diario. Lungi dal poterlo leggere - l'italiano è ben aldifuori della loro portata - lo brucerebbero immediatamente.
"Come ufficiale di collegamento durai molto molto poco. I titini si resero conto immediatamente delle mie enormi difficoltà con lo sloveno e nel loro italiano stentato da italianizzazione forzata mi spiegarono che se ne facevano poco o niente di me e che mi conveniva andare da un'altra parte.
Mi spedirono al Lago di Bled dove per un paio di settimane affiancai il loro servizio di spionaggio come madrelingua di italiano incaricato di tenere d'occhio i gerarchi in vacanza. Non avevo neppure bisogno di usare un falso nome. Ero italiano, ero un entusiasta del regime, ero un patriota ed ero due orecchie ben tese.
Ovviamente, io ero un principiante e per quanto mi fosse più facile trincerarmi dietro menzogne e scuse, non ci volle molto prima che il controspionaggio mi scoprisse.
Nel giro di due settimane mi ero "bruciato" ed ero stato assegnato ad una piccola base logistica sui fianchi del monte Klek.
La base era una casa annerita dal fumo dal camino e dal tempo dentro e sorprendentemente bianca all'esterno. Era di proprietà di un compagno, costruita dal suo bisnonno come malga e rifugio per i nobili austroungarici che nella loro indolenza si dedicavano a sporadiche scampagnate sulle Alpi Giulie. Pur essendo una costruzione piuttosto bassa era a due piani, con balconi fioriti curati dalla moglie del proprietario. A turno ogni giorno eravamo tenuti a spazzare i pavimenti di legno e a cucinare la cena nella stufa del piano terra, il cui fuoco serviva a scaldare anche i piani superiori. Di ceramica bianca, tipicamente austriaca, era il frutto della gratitudine di un notabile locale, sorpresa da una tempesta distante da casa e ospitato dai nonni del nostro oste, e unico segno di ricchezza della casa e in evidente contrasto con la rustica essenzialità del rimanente arredamento. Noi dormivamo nel pagliaio dietro la casa, sempre vestiti e pronti a fuggire qualora si fossero avvicinati individui sospetti.
Lì lavoravo come un mulo aiutando i compagni in tutti i lavori di fatica. In cambio, un compagno della comunità slovena di Trieste mi insegnava pian piano qualche parola. Più tardi sono venuto a sapere che conosceva anche i miei genitori e che erano rimasti in contatto nonostante tutti gli anni trascorsi.
Fu grazie a lui e alla sua rete di contatti di dimensioni incredibili che venni a sapere della morte di mia madre. Ne aprofittai per tornare in Italia. Mi feci crescere la barba, presi un biglietto del treno e arrivai in paese, dove feci appena a tempo a visitare la sua tomba prima di ripartire. Destinazione: Trieste.
Ripensando a quel periodo non mi capacito di come abbia viaggiato di più in un paio di mesi che in tutti gli anni della mia adolescenza.
Dopo la partenza di mio padre, venne a stare con noi una "zia", in realtà una triestina italiana e antifascista, vecchia conoscenza dei miei. Il rischio aumentava, ma quanto meno riuscivo ad andare avanti a studiare. Vivevamo come in apnea tra una lettera e l'altra di mio padre, che ci raccontava del caldo e delle mosche, del leone che una volta aveva visto vagare nel deserto e delle mandrie di gazzelle e dei popoli cui gli chiedevano di sparare contro, le loro abitudini e i loro costumi.
Non poter più usare la propria lingua, neppure nelle ore più profonde della notte, non ebbe un bell'effetto su mia madre. Pallida, smunta, era diventata l'ombra di sé stessa. Per fortuna tra il lavoro nella vigna, cui collaboravo spesso anch'io, e la presenza della zia, riusciva ancora a distrarsi un poco, ma le parole che pronunciava tra una polenta e l'altra erano ormai davvero poche.
Tutto questo finì e lei divenne muta, il giorno in cui io compii 18 anni. La lettera di mio padre era un mese in ritardo e ciò ci aveva già procurato un enorme senso di angoscia ed oppressione. Venne a bussare il vicino che di norma raccoglieva la posta per noi, reggendo una busta leggermente ingiallita.
Dentro, in chiare lettere era scritto: Antonio Stefani, classe 1898, deceduto in <località ignota>, il giorno 5 agosto 1940.
Mia madre urlò fino a sgolarsi e a volte io credo che ci riuscì, poiché da quel giorno non la sentii mai più parlare. Neppure quando uscii di casa l'ultima volta per prendere la via della montagna mi parlò. Mi abbracciò e basta."
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