domenica 25 agosto 2013

Il '68 in Svizzera: "La rivoluzione ai tempi dello Jodel"



L'altro giorno mi è capitato di vagabondare per la biblioteca personale del mio amichetto del cuore, monsieur Belzebù. Tra i libri d'amore storto e i manuali per la preparazione di pesticidi risalenti ai tempi in cui ancora raccontava le favolette della buonanotte a suo figlio adottivo Bafometto, ho notato una copertina strana. Era rossa e in copertina riportava un giovanotto coi Lederhosen e i costumi tradizionali. Fin qui tutto a posto. Il fatto strano è che il messere in questione reggeva tra le zampe una molotov e aveva il volto coperto.

Il libro si chiama "La rivoluzione ai tempi dello Jodel" e l'autore è un certo Federico Rittmeyer, classe '45. L'ho poi cercato un pomeriggio sulle rive dello Stige tra i bagnini stagionali, ma non l'ho trovato. Uno così non può essere finito in Paradiso, quindi dev'essere ancora vivo.

Perché ero così sicuro di trovarlo? Perché il libro è bello - a modo suo - e certi autori non ce li lasciamo certo sfuggire. Hemingway è qui ad affilare il forcone per Fabio Volo, Kafka si litiga con Dante l'anima immortale di Moccia e Bram Stoker ha strappato dal torpore la Shelley nell'attesa di rendere l'eternità alla Meyers un vero incubo.
Uno così gli faceva il culo a tutti i Paolini e le Troisi di questo mondo.

Il libro racconta delle avventure - autobiografiche o meno, difficile dirlo - di Mario, giovane studente a Zurigo, figlio di immigrata italiana e padre svizzero tedesco, educato alla tedesca e segnato dall'amore per una giovane collega calabrese, e del suo impatto col mondo del '68: le droghe, il movimento per la pace, le occupazioni delle università e la scoperta dell'amore libero e sconfinato.

Leggendo la trama mi era venuto da cagnare. Chi cazzo se ne sbatte? Una storia banale, un personaggio banale, una località leggermente meno banale. La geografia della storia - fisica e non - mi ha attratto e impedito di infilare il libro, edito nel '79 a Berna, su per il culo dell'editore (quello sì è nostro ospite).

Proseguendo nella lettura ho scoperto perché Belzebù lo teneva in biblioteca: questo libro è maledettamente figo.

La storia d'amore non è scontata: qui l'impedimento classico viene a scomparire, i genitori sono moderatamente contenti (la madre fa i salti di gioia, mentre il grigio padre teutonico se ne frega - in appparenza). A fare la parte dei Montecchi e Capuleti sono le due culture che si scontrano nel sangue del protagonista, il sangue sassone che gli indica quella storia come un pericolo per la carriera universitaria e quello latino che lo invita a gettarsi a capofitto in quelle esperienze assurde che costituiscono l'ossatura del libro.

Come quella volta che il consiglio degli studenti rivoluzionari decide di imitare i giovani americani nella rivolta studentesca inviando centinaia lettere incendiate e minatorie...tutte con la formula "Egregio Professore".
O l'occupazione più silenziosa e tranquilla della storia, in cui gli studenti non sporcano o rompono nulla, ma anzi lasciano la facoltà più pulita di prima.

E alla fine si scoprirà inquieto ed appassionato, ma con qualcosa in più; lo scontro col padre, conservatore e posato, evocato in tutto il libro ma mai affrontato di petto, si risolve nella scena finale, al corteo che chiude il libro, dove in prima fila contro gli austeri poliziotti decisi a stroncare questi strani studenti ribelli ma beneducati, compare proprio lui, il padre, unito al figlio nel reggere lo striscione che recita "Yankee go home! (Please)".

Non vi rivelo altro, non vale la pena di rovinare un libro così bello. Ma vi posso anticipare che i momenti divertenti sono davvero tanti, come l'eroico fratelo liceale che scrive sulla porta della scuola "La rivoluzione arriverà puntuale col diretto Berna-Zurigo" o la fidanzata Caterina, definita la Dolores Ibarruri del cantone per aver apostrofato un professore dandogli del tu.

Così, in definitiva, il messaggio di questo libro è che la rivoluzione è sempre possibile, dentro e fuori di noi. Per dirla con l'amico del protagonista, autodefinitosi un "Baudelaire che ha rimpiazzato le droghe con le Jodel", soltanto i modi cambiano a seconda delll'anima del popolo che la compie. "Ed è naturale che si usino gli Jodel sotto le finestre dei professori, le lettere minatorie beneducate o le occupazioni pulite...siamo Svizzeri, mica Americani o Francesi!"

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