Sorvoliamo
per un attimo sui dati degli studi riportati dal vicedirettore del
Fatto: ne parlano altri che di sicuro sono ben più informati di noi, che
della scuola ci occupiamo un po’ di striscio.
Caro Feltri,
chi le scrive è un laureando in traduzione.
Come compagni di viaggio ha esponenti di quelle facoltà che lei vede
come profondamente inutili: due studenti di sociologia, un laureato
dams, un diplomato scuola fumetto (ex-Beni Culturali), uno studente di
giurisprudenza, uno di scienze forestali e una di design. Per la maggior
parte, gente senza futuro, secondo il suo ragionamento.
Lei – che proviene dalla prestigiosa Bocconi – pontifica sulle facoltà umanistiche, definendole alla fin fine inutili e dannose, un trastullo per ricchi sfaccendati che alimenta la disoccupazione.
Verrebbe quasi da darle ragione: con certe cose non si campa, a meno di
non essere particolarmente dotati (di talento o di denaro, spesso vince
il secondo). La letteratura non dà il pane; sociologia sforna
disoccupati che nel tempo libero analizzeranno i propri compari; e così
via…
Ma
siamo davvero sicuri che la colpa sia delle facoltà (che, come le fanno
notare, non esistono più)? O forse questa flessione occupazionale che
premia gli
ingegneri e penalizza i letterati è anche un riflesso della politica
imprenditoriale italiana, malata di macchiettismo e faciloneria?
Mi segua in questo esperimento mentale:
Azienda
A fa affari con paesi esteri – serve qualcuno che conosca l’inglese; si
presenta B che ha studiato traduzione e ha una discreta competenza in
ambito commerciale; si arriva al momento di stilare un preventivo:
A) Perché così tanti soldi?
B) Ho conteggiate le ore, il supporto tecnico e così via…
A) Beh, ma se lo faccio fare a mio nipote che studia inglese (17 anni) me lo fa gratis
B) Sì, ma non è la stessa cosa…
A) Ha ragione, Google Translator è gratuito. Arrivederci.
Ora,
la realtà non è forse così nera. Ma come incubo è piuttosto realistico e
vale per molteplici figure professionali: traduttori, interpreti,
esperti di comunicazione, designer
e così via…E queste sono figure che nel contesto della globalizzazione
servono davvero. Le lascio immaginare di fronte a degli umanisti.
Questa
faciloneria è un sottoprodotto della sua mentalità: la cultura non dà
da mangiare e quindi è un diletto, il denaro e la produzione sono le
uniche cose che contano. Mancava poco, ma proprio poco, a scadere nella
retorica del “una volta c’erano i veri uomini” che studiavano “cose
utili”…Noi siamo veneti, da noi si dice “mi a la tò età saltavo i fossi
par longo”, come esempio di esagerazione tipica di chi rimpiange un
passato mitico in confronto alle attuali generazioni di debosciati.
Questo
sono, per lei, i giovani che scelgono le carriere umanistiche: dei
debosciati, irresponsabili, piagnucoloni che pretendono un lavoro cui
hanno rinunciato per inseguire delle fatue passioni. Ecco che arriviamo
al punto centrale del suo articolo (e che denota la sua formazione
neoliberista): la retorica del sacrificio.
Sacrificio
che è però rinuncia, non eroica, sottomissione alla volontà altrui: che
sia dello studente ai capricci del mercato del lavoro (al riparo del
quale non è nessuno) o della democrazia di fronte ai diktat delle banche. Bisogna rinunciare ai sogni e mettersela via
(rassegnarsi), non c’è trippa per gatti. Quindi guai a inseguire i
propri interessi: servono economisti? Si studi economia! Servono
ingegneri? Ingegneria über Alles! Ad ogni piroetta del mercato, una trasformazione della società.
Lo
si vede ora il limite del ragionamento? Si vorrebbe abdicare qualsiasi
velleità decisionale ai capricci dell’economia, rinunciare al tratto
distintivo che più a mio parere contraddistingue l’essere umano:
l’essere padrone del proprio destino, homo faber fortunae suae (ebbene sì, sono colpevole di aver studiato un po’ di latino).
Si
finisce così con l’appiattimento professionale e la morte della
ricerca: chi mai finanzierà uno studio sui coleotteri in apparenza fine a
se stesso? Nessuno.
Salvo lamentarsi dopo un paio d’anni che i pesticidi non funzionano
più. Storia dell’arte? Cosa sono queste scemenze (opinione
apparentemente condivisa anche da più di qualche ex-ministro)? Peccato
che il nostro paese viva di turismo culturale e che la gestione dei beni
culturali faccia spesso acqua da tutte le parti.
All’impoverimento
culturale italiano si risponde con l’appiattimento; invece di nuotare
controcorrente, favorendo un dibattito onesto su come potenziare e rendere competitive (culturalmente e – perché no – economicamente) le discipline umanistiche, se ne invoca l’abbattimento
e la chiusura. Di fronti a demagoghi che soffiano sul fuoco dell’odio, a
istituzioni impersonali che ci schiacciano, a una crisi semi
incomprensibile e sempre più angosciante, eliminiamo la cultura.
Tutto
il ragionamento pare viziato da una visione alla Pascal: si sceglie una
carriera universitaria per evitare la disoccupazione così come si crede
per non rischiare di perdere la vita eterna; in entrambi i casi si pone
l’accento sulla rinuncia (al piacere, in entrambi i casi) a fronte di
conseguenze negative trascurabili: dov’è il rischio nel scegliere un
lavoro che non piace solo per il denaro? Un po’ di frustrazione e noia.
Qual è il rischio di credere in assenza di Dio? Aver bevuto una birra in
meno in vita e aver rifiutato le avances della tipa in discoteca. Poca
roba insomma. Ma qui è il messaggio che conta: non si fa qualcosa
per convinzione, passione o desiderio, ma per calcolo e per ottenere un
profitto personale.
A
questo punto viene da chiedersi quale possa essere il risultato: se
dovessimo chiudere i corsi che sfornano laureati in eccesso rispetto
alle esigenze del mercato, le conseguenze potrebbero essere
tragicomiche. Ogni dieci anni si dovrebbero chiudere Meccanica,
Ingegneria, Architettura ed Economia, riaprire i corsi umanistici,
richiuderli, riaprire quelli scientifici e così ad libitum…oltre al
rischio di educare una generazione di studenti completamente
disinteressati al proprio campo che entrerà nel mondo del lavoro con lo
stesso entusiasmo di certi impiegati del catasto (non me ne vogliano, è
il primo stereotipo che mi è venuto in mente…). Un’ottima strategia per
far fronte alla crisi occupazionale che investe i neolaureati.
In definitiva il consiglio è: siate degli opportunisti. Che sorpresa sentirlo uscire dalla bocca da chi ha studiato nel tempio del neoliberismo…
Nessun commento:
Posta un commento