ALLA CORTE DEL SOLE NON SANNO COSA SIA IL TRAMONTO
CAPITOLO PRIMO: Igraj!
Sono al buio.
Questo è il pensiero che mi colpisce ogni singola mattina appena sveglio, sempre che di mattina si possa parlare. In questa cella umida il muschio che si inerpica sulle pareti forma disegni quasi ipnotici, al punto che ormai cerco di ignorarlo, pena altrimenti la ripetizione di tali arabeschi senza senso negli occhi ogni volta che li chiudo. La porta massiccia e scura per il tempo fa da lapide alla mia tomba: da qui non si esce, sembra dire, non se ne esce vivi. Ai piedi delle montagne la sottile lama di luce che penetra da sotto la porta è l'unica prova dello scorrere del tempo.
La data la so: 1 marzo. I miei carcerieri si premurano di farmela conoscere nel loro italiano stentato e ringhiato. Forse credono che potendo tenere il conto dei giorni io finisca per arrendermi. La tentazione è forte, specie dopo le botte, lasciar scivolare delle parole attraverso la bocca ferita e tradire i miei compagni. Non sanno che ho fatto voto di silenzio.
Un'altra notte umida ed oscura è strisciata sulla mia pelle come una lucertola infernale che goda nel tormentarmi. Con l'apparire della luce sotto la porta si dissolvono i miei pochi sogni allucinati e mi ritrovo con la parola "Padre" incastrata tra le labbra.
Che cambiamento rispetto alla mia luminosa infanzia, tempo in cui i dolori erano banditi e i colori del giorno parevano messi lì apposta perché me ne potessi beare e me ne potessi riempire gli occhi e il cuore. Una delle poche cose che ho portato in questa cella, una delle poche cose che i miei carcerieri non mi hanno potuto strappare.
In un attimo ritorno a quegli anni e inizio a scrivere questo diario, come a cercare un ordine nel caos e una via di fuga da questo buio labirinto.
1 Marzo
"I miei genitori erano scappati appena prima del terribile rogo che distrusse la Casa, trasferendosi da Trieste in un piccolo paesino della campagna veneta.
Mio padre sapeva perfettamente il triestino e il passo da quello al veneto e all'italiano era stato relativamente breve. Lo aveva imparato da piccolo aiutando il padre in bottega e l'aveva perfezionato in un breve soggiorno nelle patrie galere come crucco verso la fine della Grande Guerra.
Grande come un albero, aveva lavorato ogni estate della sua giovinezza dal nonno in Carso, nelle vigne e nei campi, le uniche ricchezze che era riuscito a tirar su. Capelli biondi come i campi di grano che si vedevano dalla nostra casa, faccia un po' allungata ma buona e un sorriso che mi dicono fosse contagioso, abbinato a due occhi azzurri e profondi come le acque che lambiscono gli scogli di Miramare.
E ora è sepolto da qualche parte in Etiopia o in Egitto, non l'abbiamo mai scoperto.
I miei genitori erano parte di quel popolo del "kruh" e dello "mleko" che da tempo immemorabile coabitava con gli italiani in una delle città più vive dell'Impero, Trieste. Città che io non avevo ancora mai visto.
Mia madre aveva avuto qualche difficoltà in più, ma nei due anni precedenti alla mia nascita si era ambientata alla perfezione a furia di lavatoi e filò nelle stalle dei vicini.
Sembrava il contrario di mio padre: dopo la loro fuga e il dramma del rogo in cui persero tutto, a mio padre si spense il sorriso e mia madre se lo fece crescere per mantenere un equilibrio in casa, lei che prima era sempre seria e poco incline all'allegria; minuta, mora e con occhi scuri come la notte, sembrava dappertutto, sempre affaccendata a lavare panni, cucinare o aiutare me e mio padre nell'orto. Sempre pronta a scambiare una parola, a salutare i vicini, ad aiutare chi ne avesse bisogno, mai mi fece mancare il suo affetto e supplì alle carenze di mio padre nella mia educazione "indrisandome col baston" quelle poche volte in cui mi comportavo male.
Per proteggermi, non mi hanno mai insegnato la loro lingua, che da piccolo credevo segreta e magica e perciò inadatta ad un bimbo come me e che da grande avrei scoperto proibita e perseguitata come la stregoneria nel medioevo. La lingua dei miei carcerieri, la lingua che mi potrebbe salvare la vita in questa cella umida."
Lingua che mi richiama proprio in questo momento alla dura realtà.
- Govori! - esplode il primo carceriere, - Govori, Italianec!
- On ni Italianec, on je pes!
Questo è il secondo, abituato a smentire il primo sulla questione della mia nazionalità, di solito paragonandomi ad altre cose, sicuramente di scarso valore e offensive ai suoi occhi.
- Igraj, Italianec.
Ecco il comandante. Uomo tutto d'un pezzo, sembra ispirare un timore reverenziale nei suoi uomini dall'alto della sua crudeltà come militare e torturatore.
Mi getta in grembo un violino, come di rito ogni giorno. Mi chiede di suonarlo, ormai l'ho capito. Quello che forse non sa, è che non lo so fare. O forse lo sa e si diverte. In ogni caso, mi alzo, li seguo all'esterno, dò prova di non saper suonare. Nessuno si aspetta che lo suoni. Il primo giorno ho provato a tirar fuori quattro note sgraziate e sono stato pestato a sangue. Il mio compagno di cella, all'epoca, mi disse che il violino non c'entrava nulla:
-El comandante zé mato. No'l voe che ti te ghe soni el vioin. El voe che ti te parli e che te ghe conti tuto. Ma sti fasisti de merda no i me gavarà. I poe coparme ma mi no ghe conto gnente.
Pochi giorni dopo è uscito da quella porta per mai più far ritorno.
Il comandante reitera i suoi ordini, sempre più incazzato: - Igraj, igraj, igraj, IGRAJ!
Io non parlo, resto fermo e aspetto le botte.
Questa è stata la mia vita negli ultimi nove mesi. Buio, allucinazioni, lividi, sangue e silenzio.
Nessun commento:
Posta un commento