ALLA CORTE DEL SOLE NON SANNO COSA SIA IL TRAMONTO
CAPITOLO SECONDO: Vasilij
1 Marzo - continua"Sono salito in montagna il giorno dei morti di due anni fa, otto mesi prima di essere catturato. Il tempo sembra volare. L'aria torna a farsi più calda e per me è una benedizione, considerando che la prigione si trova sul lato della vallata illuminato dal sole per mezza giornata giusto durante l'estate. Sembra fatta apposta e probabilmente lo è.
In ogni caso, visto l'umorismo e l'allegria dei miei carcerieri sono pronto a scommettere che la cella sarebbe umida e gelida persino accanto alla tomba di mio padre, in Africa. Tipica ospitalità dei domobranci.
Buffo, questo posto mi ricorda le vallate da cui sono partito. Salito su un buffo trenino che portava verso paesini così da piccoli da poter stare nel pugno stretto di un neonato e che però sembravano così grandi nei racconti dei compagni che ci erano nati e che ci facevano da guide. Come fossero magici e si potessero ingrandire o restringere a secondo dell'osservatore.
Ho passato poco tempo nelle brigate del nordest. Appena hanno sentito delle mie origini mi hanno spedito su quello che un tempo era il confine italo-sloveno e che ora il confine tra la Carniola occupata e la provincia di Lubiana, quelle che un giorno sarebbero tornate agli antichi nomi di Gorenjska e kranjska. L'intento, sicuramente nobile, era quello di farmi ufficiale di collegamento tra garibaldini, giellisti e democristiani da una parte e titini e quel che restava di cetnici e monarchici antinazisti dall'altra parte. Per quanto mi sia sgolato nel dire che non conosco la lingua a nessuno è fregato granché. Bastavano il mio nome di battaglia, Vasilij, e la storia delle mie tristi orgini di immigrato sradicato per rendere i rapporti più semplici, secondo loro.
Provare a raccontare tale storia ai miei secondini sarebbe solo sprecare fiato e per quanto riguarda il nome di battaglia, be', non provano grande amore per i russi, ora come ora. Non con i cosacchi in Carnia e l'armata rossa in corsa verso i balcani.
Mio padre non è mai stato troppo presente per me. Era fatto così, poche parole, tanto lavoro, una sorta di ruvido affetto. Ma quando è partito, sapendo che sarebbe potuto non tornare, ho visto paura nei suoi occhi e amore. Per me e mia madre. Ero l'unico in paese a non aver fratelli.
Mia madre mi diceva che non era sempre stato così. Quando si erano innamorati, prima della grande guerra, era un uomo solare, pieno di speranze e di progetti. Dopo aver finito di piantare la propria vigna, comprata con i soldi dell'eredità del padre, aveva pianto di commozione. Ma qualcosa durante la guerra era cambiato.
Come se si fosse chiusa una porta.
E torno così a mio padre, in paese detto Toni ma sui registri Anton, e mia madre Petra, per tutti Piera. Si erano rifatti una vita lontano da chi li potesse tradire e per questo avevan deciso di lasciare che i propri nomi venissero cambiati. Per me il contrario. Loro tornavano in casa e riprendevano possesso dei propri nomi e in parte delle loro vite, mentre io ero ufficialmente Tommaso e solo per loro ero Tomaš, nome che mai ho sentito mio. Persino Vasilij mi suonò meglio quando lo scelsi.
Mio padre fu arruolato di colpo. C'è bisogno in Etiopia e tu non ti puoi rifiutare, dissero. Qualcuno, chissà come, aveva fatto la spia. A quel punto la scelta era tra condannare sé stesso o condannare tutti noi. Avevo 14 anni quando lo vidi per l'ultima volta, addosso un'uniforme che aveva giurato di non indossare mai e un biglietto di sola andata per l'Africa."
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