mercoledì 23 marzo 2016

Esplosivo



Ieri mattina ero in cucina, ad imprecare contro una moka che mi avrebbe fatto perdere il treno per le Fiandre. Cristo, come odio i martedì ad Anversa! Una città ricca e senza sentimento, un ufficio in cui si parla un inglese inespressivo, o al limite si può comunicare in olandese - sai che gioia. Sapendo già che giornata mi aspetta, il martedì mi sveglio sempre di cattivo umore, non c'è verso che vada diversamente.
Bernard, il padre della ragazza che mi ospita qui in Belgio, è entrato in cucina con la sua radiolina, con la quale ascolta le notizie tutte le mattine. Si è tagliato una fetta di pane fatto in casa, del quale va molto fiero; in radio parlavano delle esplosioni in aeroporto. I nostri sguardi si sono incrociati per un attimo, ma niente: lui doveva sparire nel suo studio tra mille dossier, io avevo un treno da (non) perdere. È salito il caffè e mi sono bruciata la gola per buttarlo giù. Mi sono precipitata verso la metro, potevo farcela. Stavo tentando di concentrarmi sul mio libro, quando sono cominciati a piovere messaggi. Mi chiedevano tutti come stavo, com'era la situazione in città, se ero lontana dall'aeroporto. Io non sapevo di cosa parlassero, volevo solo non perdere il treno. E, in più, tutto ciò rendeva ancora più difficile il mio tentativo di lettura. Il ritardo, la gola bruciata, una giornata di merda che si stendeva di fronte a me... stava cominciando ad essere davvero troppo.
Sono arrivata in stazione centrale, ed è lì che ho saputo dell'esplosione in metro. A Maelbeek, dove mi trovavo solo pochi minuti prima. Io, il mio ritardo, la mia gola bruciata, il mio libro. Eravamo proprio lì, dove ora c'erano solo macerie e ah, quindici morti; persone che probabilmente erano sedute di fianco a me in metro. Ed io ero ancora intera, ma in una stazione centrale. Dopo l'aeroporto e la metro, quello era il posto peggiore in cui trovarsi. Mi sono sentita certa di non riuscire ad arrivare a casa. Come se quegli altissimi muri in marmo dovessero cadermi addosso da un momento all'altro, come se stessi camminando su un campo minato. Ho finto indifferenza, mi sono girata una sigaretta e sono uscita a fumare. Io, la mia sigaretta e mezzo esercito belga.
Ho preso quello che con tutta probabilità era l'ultimo treno, prima che evacuassero le stazioni. Durante il viaggio ho tentato di lavorare sulla tesi, come mi sono imposta di fare perlomeno durante i lunghi tragitti in treno. Inutile, mi ostinavo a voler rimanere tranquilla ma non ci riuscivo per davvero: la testa vagava da sola, interrogava i miei vicini di posto, cercava di misurare il livello di tensione nell'aria.
Ho lavorato in ufficio tutto il giorno, come ogni martedì. Era incredibilmente paradossale il dover mandare mail ai volontari di tutto il mondo : “Greetings from Belgium!”, oppure “Hey, you're very welcome in our workcamp!”. 
Verso sera, la situazione ancora non accennava a sbloccarsi: niente treni, niente metro, niente bus, persino le strade erano state bloccate. Sembrava dovessi rimanere là anche la notte, un volontario dell'ONG dove lavoro mi avrebbe potuta ospitare. Ma non l'avrei sopportato: ero sfinita fisicamente, mentalmente, emotivamente. Casa, volevo solo tornarmene a casa.
Sono riuscita a tornare a Bruxelles con un treno di fortuna. Le poche informazioni che circolavano nella stazione di Anversa, incredibilmente deserta, erano solo in olandese - l'ho già detto che detesto quella città? Sono comunque rimasta bloccata in stazione centrale: l'esercito era ovunque, controllavano tutto e tutti. Di nuovo su quel campo minato, di nuovo tra quegli altissimi muri di marmo. La cosa peggiore era il silenzio tombale: centinaia di persone in piedi, immobili, incapaci persino di respirare. A fatica, sono riuscita a prendere un bus notturno speciale, che mi ha lasciata poco lontana da casa. Quella passeggiata a piedi, con le strade deserte ed il telefono scarico, è stato il momento migliore della giornata.

Nonostante tutto, o forse proprio grazie a tutto questo, sono contenta.
C'è chi ha paura, e tanta. C'è chi si è chiuso in casa. C'è chi non ha avuto il cuore di uscire, oggi.
Sono andata al lavoro, anche se non è stato facile muoversi: i trasporti sono in panne ed i controlli della polizia rallentano il tutto. Ma non mi andava di restare in casa: il terrorismo non funziona, se non ne si è terrorizzati. Per le strade, in metro (sì, quella stessa linea della metro) le persone sembravano stanche, ma sorridevano. Sorrisi ovunque, sorrisi tutto il giorno. Sorrisi di chi non si conosce, di chi non parla la stessa lingua, di chi non appartiene alla stessa etnia. Ma di chi prova la stessa, viscerale sensazione di insicurezza e di dolore. Una cieca insicurezza per il proprio futuro più prossimo, un dolore lancinante per chi ha avuto meno fortuna.
Mi ero sempre sentita una straniera qui, ma da ieri sono una cittadina di questa città, a tutti gli effetti.

Aspettavo il tram dopo l'ufficio, questa sera. Il primo di due tram, a cui sarebbe seguito un pezzo di strada in metro - dovevo sbrigarmi: il coprifuoco è alle 19. Fumavo una sigaretta e guardavo un cielo incredibilmente arancione; il vento era gelido, ma l'atmosfera era così bella che non aveva importanza.
Per la prima volta in vita mia, mi sono sentita davvero parte di qualcosa. Del genere umano intero, forse. Per la prima volta in vita mia, ho avuto la certezza che tutte le persone attorno a me stessero provando la mia stessa sensazione: migliaia di cuori che battevano irregolarmente, ma all'unisono.

Ils ont eu le sang, ils n'auront pas la haine.

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