Ieri
mattina ero in cucina, ad imprecare contro una moka che mi avrebbe
fatto perdere il treno per le Fiandre. Cristo, come odio i martedì
ad Anversa! Una città ricca e senza sentimento, un ufficio in cui si
parla un inglese inespressivo, o al limite si può comunicare in olandese -
sai che gioia. Sapendo già che giornata mi aspetta, il martedì mi
sveglio sempre di cattivo umore, non c'è verso che vada
diversamente.
Bernard,
il padre della ragazza che mi ospita qui in Belgio, è entrato in cucina con la sua
radiolina, con la quale ascolta le notizie tutte le mattine. Si è
tagliato una fetta di pane fatto in casa, del quale va molto fiero; in
radio parlavano delle esplosioni in aeroporto. I nostri sguardi si sono incrociati per un attimo, ma niente: lui doveva sparire nel suo studio tra mille
dossier, io avevo un treno da (non) perdere. È salito il caffè e mi
sono bruciata la gola per buttarlo giù. Mi sono precipitata verso la
metro, potevo farcela. Stavo tentando di concentrarmi sul mio libro, quando sono cominciati a
piovere messaggi. Mi chiedevano tutti come stavo, com'era la
situazione in città, se ero lontana dall'aeroporto. Io non sapevo di cosa parlassero, volevo solo
non perdere il treno. E, in più, tutto ciò rendeva ancora più difficile il
mio tentativo di lettura. Il ritardo, la gola bruciata, una giornata
di merda che si stendeva di fronte a me... stava cominciando ad
essere davvero troppo.
Sono
arrivata in stazione centrale, ed è lì che ho saputo
dell'esplosione in metro. A Maelbeek, dove mi trovavo solo pochi minuti
prima. Io, il mio ritardo, la mia gola bruciata, il mio libro. Eravamo proprio lì, dove ora c'erano solo macerie e ah, quindici morti; persone che
probabilmente erano sedute di fianco a me in metro. Ed io ero ancora
intera, ma in una stazione centrale. Dopo l'aeroporto e la metro,
quello era il posto peggiore in cui trovarsi. Mi sono sentita certa
di non riuscire ad arrivare a casa. Come se quegli altissimi muri in
marmo dovessero cadermi addosso da un momento all'altro, come se
stessi camminando su un campo minato. Ho finto indifferenza, mi sono
girata una sigaretta e sono uscita a fumare. Io, la mia sigaretta e
mezzo esercito belga.
Ho
preso quello che con tutta probabilità era l'ultimo treno, prima che evacuassero le stazioni. Durante il viaggio ho tentato di
lavorare sulla tesi, come mi sono imposta di fare perlomeno durante i
lunghi tragitti in treno. Inutile, mi ostinavo a voler rimanere tranquilla
ma non ci riuscivo per davvero: la testa vagava da sola, interrogava
i miei vicini di posto, cercava di misurare il livello di tensione nell'aria.
Ho
lavorato in ufficio tutto il giorno, come ogni martedì. Era incredibilmente paradossale il dover mandare mail ai volontari di tutto il mondo : “Greetings from
Belgium!”, oppure “Hey, you're very welcome in our workcamp!”.
Verso sera, la situazione ancora non accennava a sbloccarsi: niente
treni, niente metro, niente bus, persino le strade erano state
bloccate. Sembrava dovessi rimanere là anche la notte, un
volontario dell'ONG dove lavoro mi avrebbe potuta ospitare. Ma non
l'avrei sopportato: ero sfinita fisicamente, mentalmente, emotivamente. Casa, volevo solo tornarmene a casa.
Sono
riuscita a tornare a Bruxelles con un treno di fortuna. Le poche
informazioni che circolavano nella stazione di Anversa,
incredibilmente deserta, erano solo in olandese - l'ho già detto che
detesto quella città? Sono comunque rimasta bloccata in
stazione centrale: l'esercito era ovunque, controllavano tutto e
tutti. Di nuovo su quel campo minato, di nuovo tra quegli altissimi muri di marmo. La cosa peggiore era il silenzio tombale: centinaia di persone
in piedi, immobili, incapaci persino di respirare. A fatica, sono riuscita a
prendere un bus notturno speciale, che mi ha lasciata poco lontana da
casa. Quella passeggiata a piedi, con le strade deserte ed il
telefono scarico, è stato il momento migliore della giornata.
Nonostante tutto, o forse proprio grazie a tutto questo, sono
contenta.
C'è chi ha paura, e tanta. C'è
chi si è chiuso in casa. C'è chi non ha
avuto il cuore di uscire, oggi.
Sono
andata al lavoro, anche se non è stato facile muoversi: i trasporti
sono in panne ed i controlli della polizia rallentano il tutto. Ma non
mi andava di restare in casa: il terrorismo non funziona, se non ne
si è terrorizzati. Per le strade, in metro (sì, quella stessa linea
della metro) le persone sembravano stanche, ma sorridevano. Sorrisi ovunque, sorrisi tutto il giorno.
Sorrisi di chi non si conosce, di chi non parla la stessa lingua, di
chi non appartiene alla stessa etnia. Ma di chi prova la stessa,
viscerale sensazione di insicurezza e di dolore. Una cieca insicurezza per il proprio futuro più prossimo, un dolore lancinante per chi ha avuto meno fortuna.
Mi ero sempre sentita
una straniera qui, ma da ieri sono una cittadina di questa città, a
tutti gli effetti.
Aspettavo
il tram dopo l'ufficio, questa sera. Il primo di due tram, a cui
sarebbe seguito un pezzo di strada in metro - dovevo sbrigarmi: il
coprifuoco è alle 19. Fumavo una sigaretta e
guardavo un cielo incredibilmente arancione; il vento era gelido, ma
l'atmosfera era così bella che non aveva importanza.
Per la prima volta in vita mia, mi sono sentita davvero parte di qualcosa. Del genere umano intero, forse. Per la prima volta in vita mia, ho avuto la certezza che tutte le persone attorno a me stessero provando la mia stessa sensazione: migliaia di cuori che battevano irregolarmente, ma all'unisono.
Ils ont eu le sang, ils n'auront pas la haine.
Per la prima volta in vita mia, mi sono sentita davvero parte di qualcosa. Del genere umano intero, forse. Per la prima volta in vita mia, ho avuto la certezza che tutte le persone attorno a me stessero provando la mia stessa sensazione: migliaia di cuori che battevano irregolarmente, ma all'unisono.
Ils ont eu le sang, ils n'auront pas la haine.
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