venerdì 23 gennaio 2015

La tela di Cassandra

Edvard Munch, Madonna (1895)
Vedo Cassandra in un baretto del vicentino dalle birre economiche. Apre un concerto hard core. Ma di hard core lei ha ben poco se non forse l’attitudine, la necessità dirompente di dire qualcosa di esistenziale ma comprensibile a pochi.
Inginocchiata sul palco inizia una danza di mani che corrono sui numerosi effetti a pedale. Sulla rete di effetti si muove sapiente ed elegante come un ragno sulla sua tela.
Sono in prima fila quando vengo invaso dai suoni. Un mare di vibrazioni in cui puoi annegare e allora cerchi la riva più vicina, non capisci e fuggi, o puoi lasciarti trasportare dalla corrente e scoprire dove ti porta.
E allora comprendo Cassandra. C’è una struttura, nella sequenza di rumori c’è una struttura primigenia, ma il tuo cervello è troppo pigro per comprenderla, troppo timoroso di scoprire una qualche verità e ipnotizzato dai movimenti di Cassandra sui pedali, a metà tra cobra e incantatore di serpenti.
E’ un’improvvisazione jazz, meditata e mediata dall’emotività della performance.
Ma il momento più commovente è quello dello stetoscopio. Nello schema di suoni inserisce quelli del proprio corpo, il battito cardiaco, le vibrazioni della pelle (se qualche amico musicista vi dice “con la mia musica voglio esprimere quello che ho dentro” ditegli che è in ritardo). Mai la musica è stata così vicina ad essere tutt’uno col proprio creatore, con l’essere umano, col pubblico. Cassandra ti pervade con in suoi oracoli contemporanei e tu non hai appigli razionali, ogni suono è una lama se cerchi di afferrarlo con la mente. Devi sentire le vibrazioni con il tuo corpo, interpretare gli oracoli con quello. In fondo è l’unica prova che esistiamo in una qualche dimensione.
Intenzionato a sapere se Cassandra, come nel mito greco, rimarrà inascoltata, ho deciso di intervistarla.