mercoledì 1 ottobre 2014

Rileggere il presente: politica e religione



Primo di intervento di quella che, forse, diventerà una serie.


Le pagine dei giornali sono dominate negli ultimi tempi dalle cronache delle stragi e degli orrori compiute dal'ISIS (Islamic State of Iraq and Syria); quelle dei giornali stupidi invece sono piene di inutili appelli a favore di un giro di vite contro i musulmani, a prescindere, riprendendo quello spirito crociato di cui un certo Occidente non sembra proprio poter fare a meno: siano islamici, ebrei o atei, l'Occidente bianco e cristiano è sempre e comunque minacciato nel proprio stile di vita e ogni occasione è buona per rispolverare spada e scudo (e magari invocare il ritorno dello scettro e dell'altare...).

Contro questa visione manichea ed epica dei poveri (di spirito, oserei dire) c'è poco da fare; la ragione si infrange come onde sugli scogli lasciando simile traccia (un velo d'acqua e nulla più) e, per quanto l'acqua scavi le valli nei secoli, io domattina ho un esame quindi vi rispondo anche no grazie e tiro avanti senza la presunzione di voler sollevare questi pesi massimi dal fardello della propria ignoranza.

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Da più e più parti non si fa altro che invocare una risposta islamica al problema ISIS, partendo dal presupposto che essendo i terroristi teoricamente islamici gli islamici stessi debbano farsi carico di rifiutarli in blocco. Il ragionamento fila - fino a quando è limitato a premesse di tipo religioso-filosofiche; quando però si chiede ai musulmani di combattere attivamente l'ISIS, ecco, lì cominciano i problemi.

I presupposti sono chiari: l'ISIS è un movimento islamista, gli islamici sono per natura islamisti, ergo gli islamici devono scomunicare e combattere l'ISIS - altrimenti sono uguali, precisi, identici a quei mostri e recuperare l'elmo e la spada non è solo una questione di buonsenso, è anche l'unica cosa ragionevole da fare. Questo è un discorso che sarebbe valso forse fino al 1700 - forse.

Infatti, come si è potuto notare in Europa, la rivoluzione inglese, copernicana e industriale (ossia il mutamento quasi contemporaneo in termini politici, scientifico-filosofici e sociali) che ha accompagnato la nostra storia nei secoli diciassettesimo e diciottesimo ha creato i presupposti per poter dire con assoluta sicurezza che Nietzsche aveva ragione (e solo su questo): Dio è morto.
Dio è morto nel senso più filosofico del termine, è morto come orizzonte unico di significato, di ideologia totale e caratterizzante; già a partire dalla nascita degli stati nazione, ma intensificatasi nei secoli industriali, questa mutazione ideologica si è sviluppata seguendo criteri immanenti (alias terreni) nella definizione dell'identità: provenienza geografica, classe sociale, identità politica sono i fattori che hanno rimpiazzato le preesistenti identità religiose.

La religione muore come corpo politico per rinascere come attributo prepolitico e apolitico; dal guidare le azioni concrete della vita quotidiana a livello personale e pubblico, si limita oggi a fornire gamme di valori dai quali scegliere per dotarsi di significato nell'azione concreta; la religione non identifica più un corpus unico di fedeli uniti da un'ideologia e da pratiche comuni, raggruppa semmai con poco successo persone che hanno, talvolta, idee più differenti che simili, ma che temono di essere lasciate fuori al freddo (in questo senso somiglia molto al PD).
Questo vale in larghissima parte soprattutto per il cristianesimo, dove l'accostamento tra identità religiosa e identità politica o economica o nazionale è più frequente, ma non solo; cosa significa sul piano dell'azione concreta oggi essere ebrei o musulmani? Non mangiare maiale e moderarsi o astenersi dal bere; ma che scelte dovrebbe compiere un politico "ebreo" rispetto a un "cristiano" o un "musulmano"? Ripartire equamente le risorse in quale libro sta scritto? In nessuno dei tre, temo. E sette religiose a parte, temo che nessun libro indichi cosa fare nel caso di una crisi di sovrapproduzione e/o come regolarsi con la caduta tendenziale del saggio del profitto (HARAM! [1]); con la fine del diritto divino e del principio d'autorità modellato sulla base del modello ultraterreno (re come emanazione diretta del ruolo di Dio di principe della creazione e fonte della morale), finisce ogni possibilità di produrre diritto religioso. Tutto quello che segue l'avvento del mercante sarà sempre umano, troppo umano, con buona pace di preti, rabbini e mullah.
La morte della religione è la morte della religione come Weltanschauung [2], come ideologia caratterizzante; le scomuniche hanno sempre fatto poca paura (come rivela la famosa frase "Il papa quante divisioni corazzate ha?"), ma se il problema dell'uomo medio è pagare il mutuo e non il rischiare l'inferno, allora la religione come genotipo è proprio finita. Quello che rimane è un fastidioso orpello, una puntura di zanzara che alcuni passano la vita a grattare, mentre altri ne fanno vanto. Ma sempre una puntura di zanzara è.

Per questo preciso motivo, il cambiamento nella natura del fiume sotterraneo ideologico che sostiene l'impianto della società moderna, mi vengono i cinque minuti quando sento parlare di guerra santa. Perché di santo, ormai, non c'è proprio più nulla - nel senso religioso del termine. L'ultima guerra santa si è combattuta dal 1917 (o se vogliamo, dal 1870 - proclamazione della Comune di Parigi) al 1991 con la caduta dell'URSS che ha lasciato vuoto il campo semantico del <nemico> nell'unico vero campo di sviluppo del sacro oggigiorno: l'economia. Quello che resta a noi, figli del post-qualsiasi cosa, è un cumulo di macerie o contro cui accanirsi (Cuba, Corea, in tempi meno recenti la Jugoslavia) o dal quale faticosamente cercare di trarre in salvo gli strumenti per iniziarne un'altra. Tutto il resto - l'ateismo, il femminismo, l'ambientalismo - sono sovrastruttura. Importantissimi tutti quanti, per carità, ma inutili a meno di non ricominciare la guerra santa contro l'economia, la guerra santa dei pezzenti [3].

Tornando all'ISIS: di fronte ad un'analisi di questo tipo, prendendola per buona, possiamo iniziare a capire la natura dello stesso movimento. Movimento che, apparentemente, assomiglia ad altri movimenti che si dichiarano politici islamici e che sostengono di ispirarsi all'Islam e al Corano. Ma di coranico, entrambi, non hanno che la retorica e gli editti (siano essi fatwa o hadith [4]); il mondo, così com'è, ha reso de facto inutile la religione, relegando a giustificazione del conservatorismo in un caso (Hezbollah, Fratelli Musulmani, Hamas) o del terrore e dell'autoritarismo nell'altro (Al-qa'ida e ISIS). Nulla di ciò che succede è religioso, è tutto politico. Il pretesto non conta; non conta mai. Se vi doveste scoprire a pensare che il pretesto "lo dice il libro X" possa avere un qualche senso allora fatevi il favore di schiaffeggiarvi fino a recuperare il buon senso.

Riprendendo quindi questo ragionamento, non sono i musulmani a dover fare qualcosa per fermare l'ISIS, proprio perché, come le loro controparti cristiane, ebraiche, buddhiste o atee, non esistono; non esistono come corpo politico. Vogliamo giocare a dare peso alle identità religiose? Sia! Però non lamentatevi se aldilà di qualche fatwa (equivalente della scomunica) non fanno altro. La jihad e la crociata non sono semplicemente passate di moda, sono irrimedialmente irripetibili. Ora (e non solo ora, ma da un pezzo) è il tempo delle controparti laiche, dei partiti, dei movimenti, degli stati e delle milizie che si confrontano non più per una parola tradotta male, ma per motivi politici, per il potere, per idee concorrenti di società.


                                                                                                                                                                      
[1] Haram: letteralmente "ciò che contraddice la legge islamica", contrario di halal, una traduzione imprecisa potrebbe essere "impuro" o "peccaminoso". Si usa anche spesso per esprimere disappunto, come una sorta di "peccato" o "mannaggia" (ed equivalenti ben più pesanti)

[2] Weltanschaaung: dal tedesco Welt (mondo) e schauen (guardare), indica una "visione del mondo" filosofica ben precisa, specialmente sovrapersonale. Potete trovare una definizione ben migliore QUI

[3] Francesco Guccini - La Locomotiva

[4] Fatwa: indicazione procedurale data a un qadi (giudice musulmano) da un faqih (esperto di legge Coranica) riguardo al modo di procedere secondo la shari'a. Tale consulto non è obbligatorio. Il termine indica anche le fatawa riguardanti il jihad (guerra santa) e i dhimmi (i non-musulmani), spesso emesse da elementi integralisti e fanatici (vedansi le condanne a morte).
Hadith: seconda fonte di legge dopo il Corano stesso, va a formare il corpo della Sunna (in pratica una guida all'interpretazione del Corano stesso). Solitamente tramandato come parola dello stesso Profeta, lo hadith (o gli ahadith) è tradizionalmente scritto sotto forma di episodi, motti o racconti che chiarificano punti altrimenti potenzialmente discutibili del Corano stesso.

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