venerdì 10 aprile 2015

Una sera al pub


L'altro giorno stavo al pub con uno dei pochi amici irlandesi che ho, tale JJ (ma noi lo chiamiamo Jimmy).

Eravamo lì a contemplare la tappezzeria, seduti su degli sgabellini un po' scomodi, in un pub un po' basso e un po' affollato, con delle signorine un po' scosciate sedute di fronte a noi. Se c'è una situazione tipo che associo a Dublino ormai è proprio questa.
Circondati da una folla di scalmanati chiacchieroni sulla strada dell'ebbrezza, chinati sui tavoli di legno, reggendoci agli sgabelli come sull'orlo di un precipizio, io, JJ e i suoi amici stavamo faticosamente cercando di condurre una conversazione prima di essere costretti ad urlare. Qui spesso ad una certa i pub si trasformano in club e si presentano degli improbabili dj ad impedire qualsiasi comunicazione umana non basata sullo scambio di fluidi corporei.

Jimmy ad un certo punto mi chiede: "[...] come va il tuo erasmus come la trovi dublino ti manca casa [...]"
Questo è almeno quello che capisco. L'assenza di punteggiatura è una cosa tipica delle situazioni comunicative estreme.

Gli dico che va bene, che me la sto spassando alla grande, che Dublino è una figata.
Non sono credibile, sa che c'è molto molto di più, ma appena si guarda attorno comprende il perché della mia reticenza. Non vale la pena di urlare certi discorsi, è arrivato il dj, la mia risposta era dettata da cortesia.
Ci riaggiorniamo al bancone. Due Smithwick's.

Altre due Smithwick's.

Una O'Hara's, bicchiere della staffa.

Siamo ad un litro e mezzo a testa, tempo di una cicca.
Facciamo quattro passi. 1 2 3 4 siamo fuori dal pub. Accendiamo le sigarette rollate con cura, inspiriamo, espiriamo, ci guardiamo, guardiamo il cielo nuvoloso.
Arriva sempre il tempo delle risposte.
Inizio a raccontare, in pieno stile dublinese, no punteggiature, no connessioni logiche, tutto nel flusso, mescolato come la Guinness quando la versi.

L'erasmus va bene. Non è sempre stato così. Adesso è migliorato. Sono cresciuto, c'hanno ragione, ti cambia la vita. O almeno mi sento così.
Quando sono partito avevo una testa sconvolta e sconclusionata, piena di confusione e paure. Avevo rivisto gente che non vedevo da un po' e la cosa mi aveva scombussolato. Avevo salutato male delle persone. Ero ancora preso male, l'ultima mia esperienza fuori - totalmente fuori - dal mio ambiente in cui non conoscevo nessuno era finita così così. Ero riuscito a trovare degli amici, ma era una cosa superficiale. E la cosa mi aveva lasciato distrutto e non l'avevo raccontato a nessuno e me l'ero tenuto dentro. Preoccupato che potesse succedere ancora, ci ho provato troppo. Troppo impegno!
Poi gli amici li ho trovati. Ma anche lì, era per solitudine che li cercavo. Gliel'ho anche detto, recentemente, che li cercavo per questo. Non per usarli, ma nella speranza di curare la mia solitudine. Come fossero stati degli antidolorifici. Non erano intercambiabili, erano loro. Ma li usavo come analgesico.
E poi a febbraio lo stress ha raggiunto l'apice e sono riuscito a rovinare un'amicizia che pensavo sarebbe stata importante. Mi sono preso parole. Mi sono ritirato in silenzio, me ne sono andato da Dublino per qualche weekend, ho conosciuto gente nuova e riattivato vecchi rapporti.
Quando poi finalmente mi ha degnato della sua considerazione e "fatto pace", lì sono guarito.

Ho capito che gli altri non possono supplire alla mia solitudine.

Ho inziato a pensare a me, a fare ciò che mi piace, a fregarmene dell'opinione altrui. Ho conosciuto ancora più gente, ho cucinato per altra gente, ho ballato con altra gente, sono migliorato. Non sono una persona nuova, solo un po' diversa.

Vedi, Jimmy, per questo ne è valsa la pena di venire qui a Dublino a gelarmi le palle al 6 gennaio, alla seconda settimana di inverno, ghiacciarmi il culo sul sellino della bici è servito a qualcosa! Tutto il freddo è servito a qualcosa.
Che freddo, che gelo, che bella la primavera ora. Continua a far freddino, ma è diverso adesso. La percezione psichica della temperatura è radicalmente diversa, ora che ho sconfitto i miei demoni per un round posso dedicarmi a me, a godermi questo tempo, che sia passando ore a chiacchierare disteso su un prato o fuori da un pub o in pista o guardando un film. Me la godo.

Jimmy mi guarda. Evidentemente sorpreso dal torrente di parole, vedo i suoi occhi muoversi furiosamente dietro le lenti degli occhiali, indeciso sul da farsi, chiedere o non chiedere di Trieste?
Decido di salvarlo: torniamo dentro, dai, ti offro una extra stout.

Camminando per O'Connell, gli rispondo. Sono passate un paio d'ore, è quasi l'alba, facciamoci quest'ultimo delirio, tra poco si torna a casa.

Trieste la devi vedere da te. Mi manca un sacco. Mi manca la gente, l'aria che sa di salso, i gabbiani di qua me la ricordano un sacco, ma qua il mare è distante, lì te lo trovi davanti ogni altro secondo. mi manca la mia casetta, le mie quattro mura che sanno di sigarette, la mia gente che non è mia, il dialetto che mi infastidisce e che però ora mi pare quasi tenero.

Non è casa mia, intendiamoci. Casa mia è un'altra, il cui nome è segreto e non va pronunciato. La stessa differenza che intercorre tra l'amore della tua vita e tua madre. L'amore della tua vita sarà la cosa più intensa che avrai mai vissuto; tua madre, se sei fortunato, la cosa più intima. Ecco, Trieste è un amore. Casa mia è il grembo materno. Che bisogna per forza di cose abbandonare! Altrimenti come fai a trovare l'amore?

Sono quasi davanti a casa. Barcollo, mi frugo le tasche alla ricerca delle chiavi.
Jimmy, mi devi venire a trovare! Sicuro te ne innamori. Guarda, se davvero ci vieni ti faccio una statua. Giuro! Sul canale. Giurin giurello. Croce sul cuore.
Arriviamo al mio portone,  ci diamo la mano, mi tira una sberla affettuosa e mi implora di andare a dormire che ormai sarai senza fiato, ma quanto parli? Eh, si vede che non mi conosci. Dai che ci becchiamo uno di sti giorni. Poco ma sicuro. Cheers! See ya, Jimmy!

Infilo la chiave nella toppa, la giro, sento qualcosa, mi volto a guardare Jimmy che se ne va, non c'è nessuno in giro. Mmh.

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