mercoledì 19 agosto 2015

Stefano Feltri e l'università di Pascal



Sorvoliamo per un attimo sui dati degli studi riportati dal vicedirettore del Fatto: ne parlano altri che di sicuro sono ben più informati di noi, che della scuola ci occupiamo un po’ di striscio. 

Caro Feltri, 

chi le scrive è un laureando in traduzione. Come compagni di viaggio ha esponenti di quelle facoltà che lei vede come profondamente inutili: due studenti di sociologia, un laureato dams, un diplomato scuola fumetto (ex-Beni Culturali), uno studente di giurisprudenza, uno di scienze forestali e una di design. Per la maggior parte, gente senza futuro, secondo il suo ragionamento. 

Lei – che proviene dalla prestigiosa Bocconi – pontifica sulle facoltà umanistiche, definendole alla fin fine inutili e dannose, un trastullo per ricchi sfaccendati che alimenta la disoccupazione. Verrebbe quasi da darle ragione: con certe cose non si campa, a meno di non essere particolarmente dotati (di talento o di denaro, spesso vince il secondo). La letteratura non dà il pane; sociologia sforna disoccupati che nel tempo libero analizzeranno i propri compari; e così via… 

Ma siamo davvero sicuri che la colpa sia delle facoltà (che, come le fanno notare, non esistono più)? O forse questa flessione occupazionale che premia gli ingegneri e penalizza i letterati è anche un riflesso della politica imprenditoriale italiana, malata di macchiettismo e faciloneria? 

Mi segua in questo esperimento mentale: 
Azienda A fa affari con paesi esteri – serve qualcuno che conosca l’inglese; si presenta B che ha studiato traduzione e ha una discreta competenza in ambito commerciale; si arriva al momento di stilare un preventivo: 
A) Perché così tanti soldi? 
B) Ho conteggiate le ore, il supporto tecnico e così via 
A) Beh, ma se lo faccio fare a mio nipote che studia inglese (17 anni) me lo fa gratis 
B) Sì, ma non è la stessa cosa… 
A) Ha ragione, Google Translator è gratuito. Arrivederci. 

Ora, la realtà non è forse così nera. Ma come incubo è piuttosto realistico e vale per molteplici figure professionali: traduttori, interpreti, esperti di comunicazione, designer e così via…E queste sono figure che nel contesto della globalizzazione servono davvero. Le lascio immaginare di fronte a degli umanisti. 

Questa faciloneria è un sottoprodotto della sua mentalità: la cultura non dà da mangiare e quindi è un diletto, il denaro e la produzione sono le uniche cose che contano. Mancava poco, ma proprio poco, a scadere nella retorica del “una volta c’erano i veri uomini” che studiavano “cose utili”…Noi siamo veneti, da noi si dice “mi a la tò età saltavo i fossi par longo”, come esempio di esagerazione tipica di chi rimpiange un passato mitico in confronto alle attuali generazioni di debosciati. 

Questo sono, per lei, i giovani che scelgono le carriere umanistiche: dei debosciati, irresponsabili, piagnucoloni che pretendono un lavoro cui hanno rinunciato per inseguire delle fatue passioni. Ecco che arriviamo al punto centrale del suo articolo (e che denota la sua formazione neoliberista): la retorica del sacrificio. 

Sacrificio che è però rinuncia, non eroica, sottomissione alla volontà altrui: che sia dello studente ai capricci del mercato del lavoro (al riparo del quale non è nessuno) o della democrazia di fronte ai diktat delle banche. Bisogna rinunciare ai sogni e mettersela via (rassegnarsi), non c’è trippa per gatti. Quindi guai a inseguire i propri interessi: servono economisti? Si studi economia! Servono ingegneri? Ingegneria über Alles! Ad ogni piroetta del mercato, una trasformazione della società. 

Lo si vede ora il limite del ragionamento? Si vorrebbe abdicare qualsiasi velleità decisionale ai capricci dell’economia, rinunciare al tratto distintivo che più a mio parere contraddistingue l’essere umano: l’essere padrone del proprio destino, homo faber fortunae suae (ebbene sì, sono colpevole di aver studiato un po’ di latino). 

Si finisce così con l’appiattimento professionale e la morte della ricerca: chi mai finanzierà uno studio sui coleotteri in apparenza fine a se stesso? Nessuno. Salvo lamentarsi dopo un paio d’anni che i pesticidi non funzionano più. Storia dell’arte? Cosa sono queste scemenze (opinione apparentemente condivisa anche da più di qualche ex-ministro)? Peccato che il nostro paese viva di turismo culturale e che la gestione dei beni culturali faccia spesso acqua da tutte le parti. 

All’impoverimento culturale italiano si risponde con l’appiattimento; invece di nuotare controcorrente, favorendo un dibattito onesto su come potenziare e rendere competitive (culturalmente e – perché no – economicamente) le discipline umanistiche, se ne invoca l’abbattimento e la chiusura. Di fronti a demagoghi che soffiano sul fuoco dell’odio, a istituzioni impersonali che ci schiacciano, a una crisi semi incomprensibile e sempre più angosciante, eliminiamo la cultura. 

Tutto il ragionamento pare viziato da una visione alla Pascal: si sceglie una carriera universitaria per evitare la disoccupazione così come si crede per non rischiare di perdere la vita eterna; in entrambi i casi si pone l’accento sulla rinuncia (al piacere, in entrambi i casi) a fronte di conseguenze negative trascurabili: dov’è il rischio nel scegliere un lavoro che non piace solo per il denaro? Un po’ di frustrazione e noia. Qual è il rischio di credere in assenza di Dio? Aver bevuto una birra in meno in vita e aver rifiutato le avances della tipa in discoteca. Poca roba insomma. Ma qui è il messaggio che conta: non si fa qualcosa per convinzione, passione o desiderio, ma per calcolo e per ottenere un profitto personale. 

A questo punto viene da chiedersi quale possa essere il risultato: se dovessimo chiudere i corsi che sfornano laureati in eccesso rispetto alle esigenze del mercato, le conseguenze potrebbero essere tragicomiche. Ogni dieci anni si dovrebbero chiudere Meccanica, Ingegneria, Architettura ed Economia, riaprire i corsi umanistici, richiuderli, riaprire quelli scientifici e così ad libitum…oltre al rischio di educare una generazione di studenti completamente disinteressati al proprio campo che entrerà nel mondo del lavoro con lo stesso entusiasmo di certi impiegati del catasto (non me ne vogliano, è il primo stereotipo che mi è venuto in mente…). Un’ottima strategia per far fronte alla crisi occupazionale che investe i neolaureati. 

In definitiva il consiglio è: siate degli opportunisti. Che sorpresa sentirlo uscire dalla bocca da chi ha studiato nel tempio del neoliberismo…

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