venerdì 2 ottobre 2015

A T.



A T.

non ho dubbi che questa mia lettera sarà una sorpresa per te. Non dovrebbe esserlo, secondo me: ho sempre amato i gesti teatrali e tu questo dovresti saperlo bene.

Tempo ne è passato, l'acqua scorsa sotto i ponti che ho a più riprese tentato infruttuosamente di incendiare è tanta, ma questo non ha cambiato nulla. Lo scorrere incessante dei minuti è una mera distrazione fisica,
una mosca nella stanza, un treno in ritardo: mi piacerebbe poter dire che il mio animo è impervio a tali piccole frustrazioni ma starei mentendo. Mentire in una lettera che si propone proprio di sgombrare il campo dalle
bugie che ho e mi sono raccontato mi pare un esercizio alquanto inutile.

Come ogni volta che ci ripenso le parole si frappongono tra me e i miei pensieri. Il cervello è ingombro e sul foglio si stende una marea di inchiostro inutile. La verità è che non ti ho mai perdonato.
Ridotta all'essenziale, questa frase racchiude tutto il senso di questi anni: non ti ho mai perdonato.
E ora ti scrivo per farmi perdonare.

Sono un penoso esempio di uomo della medicina: il mio sciamano me lo diceva sempre che non si può curare sé stessi e che nessuno ci può curare. Io, tordo come sempre, ho cercato dapprima di curarmi da solo e poi ho cercato la cura negli altri.
Invece di lasciare che la malattia seguisse il proprio corso...

Io, uomo della medicina, istruito nel riconoscere il male quando lo incontrassi per strada, ti ho visto e non ti ho riconosciuto. Non mi sono accorto del rischio che correvo, per quanto mi avessi avvertito tu in primo luogo. Ascoltare non è il mio forte.
Quando è finita mi sono sentito sprofondare. Il cielo è diventato grigio tutto d'un colpo, il giorno ha perso ogni calore. Il mio maestro me lo diceva, gli uomini della medicina incontrano queste persone sul loro cammino: che si salvino o si perdano per sempre è questione di attimi e di fortuna. Mi sono perso in questi anni, lo ammetto.

E ora, forse, sono salvo. Vedo la tua allegria e il mondo non mi crolla più addosso, per quanto i giorni non abbiano più recuperato il loro sapore e le notti siano sempre fredde. Ma lo hanno mai avuto o è solo un falso ricordo?

La verità è che non ci si poteva fare niente. Oddio, sì, si poteva, ma una volta messa in moto la macina ci ha schiacciato senza appello. E io te ne ho dato la colpa, una colpa grande come le montagne. Lì ho perso il manto della medicina, in quel momento sono divenuto un uomo-bambino. E la marea della rabbia montava. Mi svegliavo la mattina con la lacrima al ciglio; quando questa s'è inaridita ho iniziato a levarmi rabbioso. Poi, la tristezza. Infine l'euforia quando ho creduto di averti dimenticato.

Invece non ti avevo scordato; eri lì, sempre presente: semplicemente ero diventato più bravo ad ignorarti. Quando non ci riuscivo perché non era fisicamente possibile, ti spingevo via. Per un periodo ho provato a tirarti a me nuovamente, salvo spingere ancora più forte nell'attimo in cui mi sono sentito tradito in questa mia futile impresa.

Ti incolpavo, di una colpa profonda e ampia come l'oceano e infinita come l'universo. Una colpa per cui tu non avresti mai potuto chiedere scusa. Mai, neanche in un milione d'anni, avresti potuto discolparti. Ci hai provato, forse timidamente, quando ti ho aperto il cuore e ti ho mostrato le ferite che non si rimarginavano. Ma era tutto inutile. Ti avrei voluto costringere a tornare sui tuoi passi, avrei voluto rapirti e legarti a me di quei lacci che il lupo non riuscì mai a sciogliere. Eppure non mi sarebbe bastato: avrebbe dovuto essere una resa spontanea, la tua. Gli uomini della medicina raramente conoscono le mezze misure nel loro dolore.

Nella mia ricerca spasmodica di un rimedio, sono scappato in luoghi lontani, salvo riscoprirti sempre ad un passo da me. Ti ho odiato profondissimamente. Sono corso via, ho vaggiato per mare, terra e cielo. Tutto inutile, ora lo so: non si scappa da sé stessi. Tu eri in me, non ti avrei mai perduto, forse neanche a costo di mutilarmi. Scappare funzionava per i primi dieci minuti, perciò ho provato a cambiare tattica.

Mi sono perso in altre persone, cui vorrei chiedere scusa. Ma è tardi e non c'è più nulla da fare. Se vorranno chiedermene conto mostrandomi i loro petti straziati, vi piangerò sopra le lacrime di chi conosce la sofferenza perché vi è passato e offrirò loro il mio perdono.

Un giorno, finalmente, mi sono reso conto che la colpa non era tua. Quando ti ho rimosso dall'equazione, l'assoluzione tanto cercata si è fatta viva davanti a me. Ho scalato quella montagna di luce e ne sono rinato. Non è stato facile. Abbandonare una certezza, pure nel male, è sempre una scelta coraggiosa.

Ora che ti ho abbandonato, ti chiedo perdono.

Dott. Ugo Tovil
(Uomo della medicina)

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